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Assemblee, cresce no dei soci sul nodo delle remunerazioni

No e astensioni su compensi e relazione si sono attestati intorno al 15% in media. Gli investitori vorrebbero maggiore trasparenza su numeri e performance

di Luca Davi

(Valmedia - stock.adobe.com)

3' di lettura

Prendono parte in misura crescente alle assemblee delle società quotate italiane. Dialogano con i board e li pungolano. Ma, soprattutto, sono sempre più attenti a bacchettare le società in cui investono per le scelte sulle remunerazioni dei propri vertici aziendali. Gli investitori istituzionali delle principali società quotate italiane, dopo il periodo di “grazia” (e di tolleranza) concesso nella stagione assembleare 2022 a seguito dello scoppio della pandemia, nel 2023 sono tornati a scrutinare nel dettaglio le delibere dei board sui temi legati alle remunerazioni. E a dire con chiarezza “no” alle decisioni dei board su bonus e stipendi che, a loro giudizio, non erano condivisibili, soprattutto sotto il profilo dei “crismi” Esg.

I numeri della stagione assembleare

Per capire il livello di dissenso degli azionisti, basta guardare i numeri della stagione assembleare appena conclusa. I dati elaborati da MorrowSodali, società specializzata in corporate governance, confermano come quello della remuneration rimanga il tema più controverso nel confronto tra azionisti e Cda: i voti contrari e le astensioni registrati alle votazioni relative alla Politica di remunerazione (la cosiddetta Sezione I) e alla Relazione (Sezione II) delle principali società quotate sul Ftse Mib si sono attestati intorno al 15% in media. Un valore cresciuto di quasi un terzo rispetto all’anno precedente: se nella tornata assembleare del 2022 il voto medio a supporto delle Politiche sulla remunerazione era stato pari al 90%, quest’anno il dato è sceso all’86%. Peggio è andata al voto sulla Relazione, il cui supporto favorevole è sceso del 5%, dall’89% all’84%.

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«Tutti gli investitori istituzionali ribadiscono come sarebbe preferibile concentrarsi su tematiche extra-finanziarie – spiega Fabio Bianconi, managing director di MorrowSodali – ma alla prova dei fatti i temi rilevanti sono pur sempre quelli relativi alle politiche di remunerazione e al livello di disclosure offerto al mercato».

IL VOTO NELLE ASSEMBLEE DELLE QUOTATE ITALIANE
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La normativa sul “Say on pay”

L’intervento deciso degli azionisti sul tema remunerazione è frutto dell’introduzione della normativa sul “Say on pay”, strumento di controllo in mano agli azionisti rilanciato dopo la crisi dei subprime, che nasceva come tentativo di aumentare la trasparenza sulle retribuzioni dei manager pubblici e privati e di freno a eventuali eccessi o distorsioni. Il pressing prende forma durante l’anno, nel quadro degli incontri realizzati con il management (il cosidetto engagement) ma si manifesta nella fase del voto e trova il suo razionale nelle relazioni annuali presentate dai singoli investitori. «La prima preoccupazione per i soci – spiega Bianconi – è costituita dal disallineamento tra best practices europee e le prassi nazionali interne, talvolta basate su contratti collettivi: pensiamo ad esempio ai trattamenti di fine rapporto, o all’erogazione di bonus discrezionali, non sufficientemente dettagliati o concessi da deroghe vaghe. Si tratta di modalità mal viste dagli investitori internazionali, abituati invece a prassi chiare e asciutte, tipicamente di matrice anglosassone».

Eccesso di discrezionalità

Ogni azienda fa caso a sè, va detto. E non mancano le esperienze positive. Ma per alcuni investitori in Italia c’è ancora troppa discrezionalità tra le società quotate, complice una normativa che lascia ampi margini di movimento. Un tema di rilievo, questo, a cui si lega a doppio filo quello della scarsa rendicontazione, criticità peraltro comune ai principali Paesi europei. «Talvolta alle società quotate viene imputata la scarsità di trasparenza nella comunicazione degli obiettivi per i piani di incentivazione di lungo termine», aggiunge Bianconi. Gli investitori, insomma, vorrebbero maggiore trasparenza sugli obiettivi, per vedere quanto i numeri e le performance raggiunte combaciano con i target del piano industriale. Talvolta ciò non accade per non fornire un vantaggio informativo agli altri competitor. Ma è anche vero che quando c’è allineamento tra le previsioni e i risultati raggiunti «per gli azionisti diventa più facile rispondere alle richieste dei board».

La divaricazione

La divaricazione tra attese e risultati registrata nel 2022, complice la pandemia, è stata forte. L’engagement ha aiutato, a conferma di un processo di maturazione societaria che ha permesso di superare anche i venti contrari dei proxy advisor, come dimostra il caso UniCredit, in cui la banca è riuscita ad ottenere il voto favorevole dell’assemblea (con il 69,1% dei voti) alla nuova politica di remunerazione della banca. Tuttavia la disponibilità degli investitori non può essere considerata una cambiale in bianco. «Una volta che si è lavorato per convincerli della validità delle proprie scelte, l’anno successivo serve lavorare sugli aspetti critici», conclude Bianconi. Il problema si porrà in prospettiva, quando «si vedrà come il quadro inflazionistico avrà avuto ricadute anche sul fronte delle remunerazioni, con correzioni in deroga che saranno oggetto di esame approfondito». Un tema questo che, c’è da scommetterci, sarà un banco di prova per le assemblee del 2024.

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