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Imprese, solo il 24% dei ceo e il 32% dei manager è donna

Dallo studio della Rome Business School “Gender Gap e lavoro in Italia” emerge una disparità retributiva ancora elevata a danno delle donne in Italia

di Monica D'Ascenzo

7' di lettura

Le transizioni digitali ed ecologiche delineate nel Pnrr sono la sfida dei prossimi anni del mercato del lavoro italiano. Una sfida che potrebbe vedere come grandi escluse le donne a causa di una formazione non adeguata a quelle che saranno le richieste delle imprese e delle istituzioni in termini di competenze specifiche, soprattutto in materie Stem. Le disuguaglianze di genere rischiano di essere “la palla al piede” della crescita economica italiana, nonostante i leggeri segnali positivi che sono arrivati ad esempio dall’occupazione femminile che ha toccato il 52,2%, un record storico, ma allo stesso tempo un livello ancora ben lontano dalla media europea che supera il 60%.

Al tema hanno dedicato uno studio specifico Francesco Baldi, Massimiliano Parco e Valerio Mancini della Rome Business School dal titolo “Gender Gap e lavoro in Italia”, che raccogliendo i dati da diverse fonti crea un quadro complessivo della situazione attuale nel nostro Paese in termini di disparità di genere.

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Un paio di dati su tutti danno la misura della strada ancora da percorrere verso una maggiore uguaglianza nel nsotro Paese: su 17mila imprese italiane, solo il 28% dei manager sono donne e solo il 19% occupa una qualifica dirigenziale (Osservatorio 4.Manager 2022), con un incremento annuo del +0,3% negli ultimi 10 anni; mentre a livello di ceo la quota è ferma al 24%. I settori con il maggior numero di donne al vertice sono Oil & Gas (39%), Healthcare (38%) e Servizi Finanziari (38%), le percentuali più basse nei comparti elettricità, gas e acqua, Trasporti e Real estate.

Percentuale di donne nel management

Grant Thorton

L’occupazione femminile in Italia

Una panoramica tra i dati dell’Unione Europea nel suo complesso e l’Italia fa emergere alcune differenze di rilievo, come dicevamo, già a partire ai tassi di occupazione: l’Italia è passata da un tasso

di occupazione femminile del 46,2% nel 2009 ad un tasso del 52,2% nel 2023, con un aumento di 6,1 punti percentuali, mentre l’Unione Europea, invece, nello stesso periodo ha aumentato la sua quota di occupazione femminile di ben 9 punti percentuali, dal 56,7% del 2009 al 65,7% del 2023.

Tasso di occupazione per genere (15-64 anni)

Dati 2009 vs 2023 (quote percentuali)

Elaborazione su dati eurostat

La zavorra sulle spalle delle donne resta quella del peso dei lavori di cura . Il rapporto tra tempo dedicato dalle donne di età compresa tra 25 e 44 anni al lavoro familiare e tempo dedicato allo stesso da entrambi i partner è costantemente diminuito dal 2014 al 2021, passando da 67 a 62,6. Ma resta pur sempre il fatto che il carico resta maggiormente sulle donne nelle coppie, soprattutto in presenza di figli.

Asimmetria lavoro familiare

Rapporto lavori di cura uomini e donne (25-44 anni)

Donne più istruite

Il mondo del lavoro in Italia non riflette ancora la preparazione scolastica e la formazione della componente femminile. Nel 2021, la quota rosa dei laureati è stata pari al 57,2%, con dei picchi importanti in alcune regioni come la Valle d’Aosta (74%) e la Sadegna (63,5%). Lo studio mette in evidenza come particolarmente interessante sia notare come le regioni della costa adriatico-ionica, presentino in media percentuali di laureate: Abruzzo (61,8%), Sicilia (61,7%), Basilicata e Puglia (61,5%), Molise (61,4%) e Marche (61,2%).

Quote femminili di laureate nel 2021

Spaccato per regione

Dati Istat

Mentre il numero dei laureati è aumentato quasi progressivamente tra il 2007 e il 2021, la quota percentuale di laureate donne (sul totale di donne residenti nel nostro Paese) ha registrato fasi diverse di crescita e decrescita. Dopo un incremento tra il 2008 e il 2014 con il superamento del 59%, la quota di donne laureate è diminuita fino ad un minimo di 56,8% nel 2020. L’ultimo dato a fine 2021 indica un rialzo di 4 decimi di punto percentuale al 57,2%.

Il divario è particolarmente pesante a scapito delle donne, invece, nelle materie Stem, che sono anche quelle che aprono le porte dei lavori di domani: nel 2022, il 23,8% dei giovani adulti con un titolo terziario ha una laurea nelle aree disciplinari scientifiche e tecnologiche. La quota sale al 34,5% tra gli uomini (un laureato su tre) e scende al 16,6% tra le donne (una laureata su sei). Un divario che si riflette nel mondo del lavoro, dove le donne sono impiegate ancora per lo più in lavori di cura.

Le differenze di genere nelle retribuzioni

Se non c’è corrispondenza fra preparazione e formazione dlele donne e loro partecipazione al mondo del lavoro, ancor meno c’è corrispondenza fra le loro competenze e la retribuzione, tanto che il gender pay gap continua a persistere in ogni ambito anche se più attenuato in ambito pubblico rispetto al privato.

Nel report viene evidenziato come nel 2014 la retribuzione lorda dei lavoratori dipendenti italiani di genere maschile è stata pari a € 11,9/all’ora, € 1,1 in più rispetto alla retribuzione mediana dei dipendenti di genere femminile (€ 10,8/all’ora) . Da allora il divario salariale è rimasto pressoché invariato come emerge dai dati 2021: le donne, in base agli ultimi dati disponibili Istat, ricevono una retribuzione con un valore mediano di € 11,4/ all’ora, mentre il genere maschile guadagna fino a € 12,5/all’ora.

Retribuzione lorda oraria

Dati relativi ai lavoratori dipendenti, valori in euro

Istat

L’ampiezza del divario differisce in base ai settori Ateco di appartenenza dei lavoratori, come evidenzia lo studio: «In Italia, il settore della “finanza e delle assicurazioni” è il settore in cui mediamente il personale dipendente gode di uno stipendio più elevato ed è quello nel quale si registra (dopo il settore minerario estrattivo) il più ampio divario salariale tra uomini e donne».

Gender pay gap per settori

Dati mediani in euro

Istat

Gli effetti sulle aziende

Il tema è all’ordine del giorno anche dei consigli di amministrazione delle società, quotate e non. D’altra parte non mancano studi che hanno dimostrato come una maggiore diversità, non solo di genere, porti effetti positivi anche a livello di bilancio. Secondo Boston Consulting Group, ad esempio, la diversity è anche un ‘affare’: le aziende con almeno 3 dirigenti donne hanno un aumento mediano del ROE superiore di 11 punti percentuali in cinque anni rispetto a quello delle aziende senza dirigenti donne. E le aziende con almeno il 30% dei dirigenti donne hanno un aumento del 15% della redditività rispetto a quelle senza dirigenti donne. Basta una sola donna in più nella leadership per aumentare il rendimento di una azienda da 8 a 13 punti base.

«Mai come in questo momento storico abbiamo l’opportunità senza precedenti di costruire economie più resilienti e basate sulla parità di genere investendo in luoghi di lavoro inclusivi, creando sistemi di assistenza più equi, promuovendo l’ascesa delle donne a posizioni di leadership, applicando una lente di genere alla riqualificazione e alla ridistribuzione e incorporando la parità di genere nel futuro del lavoro. Le strategie di ripresa sensibili al genere saranno fondamentali per recuperare il terreno perduto per prevenire cicatrici a lungo termine nel mercato del lavoro. In ambito professionale il rispetto il tema dell’inclusività e, in particolare, il divario di genere, come abbiamo visto, sono ancora elementi preponderanti» si legge nel report.

Gli effetti sull’economia

Perché si continuano ad approfondire studi di genere in economia? L’Istituto Europeo per la parità di genere (EIGE) ha sottolineato nel Gender Equality Index 2022 quanto la diminuzione del gender gap avrebbe un impatto positivo sull’economia, in particolare affermando che una maggiore uguaglianza di genere porterebbe entro il 2050 a un aumento del PIL pro capite dell’Unione Europea dal 6,1% al 9,6%.

«Il lavoro del futuro - sottolinea il report - prevede, infatti, delle conoscenze molto specifiche e proiettate prevalentemente verso la tecnologia e l’innovazione, ma, nonostante il livello di istruzione delle donne sia molto elevato, non vi è una corrispondenza adeguata sul piano professionale e ancora meno dal punto di vista remunerativo-salariale (gender pay gap). Pertanto, è evidente che mettere le donne al centro delle economie porterà fondamentalmente a risultati di sviluppo migliori e più sostenibili per tutti, sosterrà una ripresa più rapida e ci rimetterà sulla strada per ricostruire società più eque, inclusive e resilienti».

Imprenditrici e startupper

Non solo dipendenti. La crescita della componente femminile è auspicabile anche fra gli imprenditori e gli startupper, anche se al momento i dati restano ancora desolanti non solo in Italia, ma a livello internazionale. La media globale delle donne startupper sfiora il 5% e negli Usa arriva al 5,8%, in Europa ci si attesta addirittura sotto la soglia con un 3,8% (dati Commissione UE, 2023) di tutte le exit per le società fondate dopo il 2000. Il vero nodo è ancora una volta da ricercare nella formazione: i dati sulla parità di genere nell’ambito delle competenze prettamente tecnologiche, che rientrano tra le prime 10 competenze delle quali si prevede una forte crescita, sono il punto debole con l’alfabetizzazione digitale si attesta a un livello di parità del 43,7% e le conoscenze su intelligenza artificiale e big data raggiungono il 33,7% di parità. Nonostante sia in aumento il numero di donne che sceglie facoltà scientifiche, poi, l’occupazione femminile in questi ambiti si attesta attorno 30% (dati WEF 2023). Nelle professioni non Stem invece, la percentuale di donne occupate è quasi la metà con un 49,3%.

Se si guarda all’Italia, le risorse previste dal Pnrr per interventi mirati alle donne o che potrebbero avere riflessi positivi, anche indiretti, nella riduzione dei divari attualmente presenti a favore delle donne rappresentano oltre il 20% del totale (circa 38,5 miliardi totali). Inoltre, novità arrivano dal ministero delle Imprese e del made in Italy, che rafforza il nuovo Fondo per l’imprenditorialità femminile (già dotato di 40 milioni di euro) e, integrando negli investimenti anche 400 milioni inclusi nel Pnrr, mette in campo ulteriori iniziative a supporto di progetti a significativo contenuto tecnologico e innovativo. Nonostante però la presenza di molte opportunità di finanziamento e di obiettivi specifici del Pnrr, tra le start up le imprese a prevalenza femminile sono cresciute molto poco dal 2021 al 2023, passando solo dal 13,17% al 13,71, mette in evidenza il report.

Sembra, invece, essere soprattutto l’e-commerce il vero motore di crescita delle le aziende al femminile, con un numero di imprese donna attive nel settore dell’e-commerce pari al 26,8% del totale. Certo il cammino da fare resta lungo, ma la consapevolezza che si tratti di un tema che non riguarda una minoranza (le donne restano la metà della popolazione italiana) quanto piuttosto tutto il Paese può far guardare alla sua soluzione in una prospettiva diversa.

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